|
New
|
|
|
07/03/2011 - Il precariato rende schiavi
Voi che avete un posto fisso, uno stipendio certo a fine mese; voi che potete guardare in faccia il futuro, mantenere i vostri figli, fomentare i vostri sogni: considerate se questo è un ragazzo che, s’è fortunato, lavora con scadenza, che non conosce la sicurezza della retribuzione, che non può pensare al matrimonio, perché poi come si campa?
Considerate se questa è una ragazza, senza certezze, senza un degno impiego, con la rassegnazione che nulla può cambiare, vuota la passione e gelida la speranza, come un randagio sotto l’acquazzone.
Può sembrare esagerato utilizzare lo schema della famosa e triste poesia di Primo Levi per cominciare un articolo dedicato al mondo dei giovani precari.
In realtà, la condizione di tanti e quanti che vivono, non volendolo, in una situazione insicura, perché manca la continuità del rapporto di lavoro e un reddito adeguato per potere pianificare la vita, è anche un disagio esistenziale, uno stato d’animo che cozza con i ‘fortunati’ e i ‘privilegiati’, ovvero con la ‘generazione sandwich’, come la definiscono gli americani, quella che da un lato deve, giocoforza, mantenere i figli e al contempo badare alla vecchiaia dei genitori.
In Sicilia, terra di precari pubblici e privati, di Lsu, precari della scuola e operatori call-center, sono tanti, troppi, i giovani che quotidianamente fanno i conti con il gorgo dentro al quale finiscono i sogni di una vita da vivere, anziché da sopravvivere.
Alessandro ha 24 anni. Appena tre anni fa era assistente tecnico per conto della Wind a Palermo. Risolveva i problemi della gente con i router, con l’Adsl. Cinque ore al giorno con la cuffia e con un pc davanti agli occhi, una telefonata dopo l’altra. Era un ‘interinale’, un temporaneo. In azienda, infatti, si divideva così la gente: da un lato gli ‘indeterminati’ e dall’altro il resto. Creando così un’alienante sineddoche, catalogativa per giunta, tra una parte del contratto (la persona) e il contratto stesso.
Pensa Alessandro: “Sei precario dentro, perché ti sembra sempre di fare il passo più lungo della gamba. Le difficoltà maggiori stanno proprio nel vivere male la tua realtà economica. Spendi poco per il timore di rimanere a secco domani. La paura, poi, nasceva una settimana prima dei rinnovi contrattuali, sempre la stessa: Resterò qui o sarò di nuovo un disoccupato?”.
Ma ora ha deciso di dare una svolta alla sua vita: “Ho scelto la libera professione. Non credo più nei posti fissi. Sono realtà vecchie e utopie attuali, accessibili solo a pochi ‘eletti’, spesso figli di onorevoli o inciuciati vari. Se devo mangiare, oppure no, adesso lo scelgo io. Non voglio più dipendere da un Tizio o da un Caio che mi dicono: – C’è crisi, da domani non lavori più – . Qualcuno disse che ‘chi fa da sé, non sbaglia mai’. Io andrò avanti così”.
Linda, anche lei palermitana, è una precaria della scuola. Ha sottoscritto contratti di tutti i tipi, soprattutto con gli istituti privati “a tempo determinato, co.co.co con busta paghe ‘gonfiate’, a tempo, ma con un impegno maggiore. Ho lavorato anche in nero”. Una condizione che vive “malissimo. Il precariato – racconta Linda – è l’aberrazione del lavoro. Il contratto dovrebbe rendere l’uomo libero, autosufficiente e dargli dignità; il precariato rende schiavi, dipendenti dalla famiglia di origine, e non permette di realizzarti”.
“Il problema – insiste una delle tante precarie della scuola – sta nel non potere pensare al futuro. E la difficoltà non sta tanto nel non pensarlo, quanto nel fatto che comunque arriverà, a grandi passi, e noi non avremo gli strumenti per affrontarlo. Il precariato non tiene conto dei cicli vitali: l’uomo invecchia, si ammala, si riproduce. Il precariato ci toglie tutte queste possibilità. Prescindendo, poi, dalla componente umana della nostra condizione, rubiamo una risorsa importante a tutta la società”.
Infine, il modicano Michele, che ha deciso di lasciare la Sicilia per andare a vivere a Roma: “Sono stato e sono ancora un precario con contratto di somministrazione occasionale, volgarmente detto contratto a chiamata. Ogni mese devo fare i conti con l’affitto, con le bollette – che scadono sempre – e le piccole spese extra. Il momento triste è quando ci si accorge che non si è riuscito a mettere da parte nemmeno un euro, seppur si sia risparmiato un po’ su tutto”.
Per Michele, che ha 26 anni, “il precariato è la maledizione del millennio. Una bella sorpresa per chi viene spinto a studiare in fretta per laurearsi in tempo e poi scopre che il tanto vituperato lavoro è una bufala colossale. Si sta male non solo per mancanza di soldi (per carità, pure questo è un problema) ma, anche e soprattutto, perché non si riesce a capire che ruolo si ha nel mercato del lavoro, quanti contribuiti sono stati versati, se si avrà una dignitosa pensione: insomma la maggiore preoccupazione è il non sapere se il gioco valga la candela”.
Un tema, quello del precariato, che non riguarda solo la Sicilia. Interessa, ahinoi, tutto quanto il Mezzogiorno. Argomento, tra l’altro, affrontato in maniera analitica nel terzo numero de Il Sud, in edicola da ieri. “Giovani del Sud senza futuro” è il titolo della copertina.
|
|
|
|
|
|
|
Motore di Ricerca
Newsletter
|
|