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31/08/2013 - LA GUERRA SICILIANA FRA POVERI PRECARI E DISOCCUPATI

Non se ne può letteralmente più di leggere, qua e là, commenti velenosi tra due categorie di nostri concittadini particolarmente sfortunati, entrambi defraudati di quello che dovrebbe essere il più sacro dei diritti, il lavoro. La disperazione, la disoccupazione, sono cose serie, sono brutte come la fame, sono la fame stessa. Chi non c’è passato, per favore, si astenga dal pontificare con la pancia piena. “Vadano a lavorare! Si cerchino un lavoro!” ma quale, di grazia? Quello del topo d’appartamento, sempre più tristemente diffuso nelle nostre città? Ma andiamo alla radice del problema: perché non ci deve essere lavoro in Sicilia? Chi lo ha portato via? Chi ci ha derubato? È una maledizione biblica, il frutto della nostra inferiorità politica e culturale o c’è qualcos’altro sotto? C’è in questi giorni all’Università di Palermo un importante convegno internazionale di economia regionale, in quello che è il baricentro del più grande fallimento continentale delle politiche di coesione: il Mezzogiorno, refrattario a tutto, a qualsiasi incentivo, a qualsiasi politica di qualsiasi colore, sia essa macro o microeconomica. Non è che forse il contesto geopolitico in cui il Mezzogiorno è inserito è insostenibile? Nessuno mette in discussione il framework: l’Italia, l’Europa, quelli sono “dati”. E se fossero proprio quelli i problemi? Ma non è questo che oggi preme tanto dire, semmai oggi lo mettiamo tra parentesi (chi vuol capire capisca). Spostare troppo al di sopra di noi problemi potrebbe essere visto come un alibi per non risolvere un bel niente. Andiamo al nocciolo del problema. Per anni la P.A. italiana ha “giocato” con i precari e oggi, in tempi di fiscal compact, ha deciso di voltar pagina con norme nazionali dettate tutto sommato da buon senso: 50 % dei posti ai precari per i prossimi anni, il resto agli altri. Chi mi conosce sa quanto io sia critico nei confronti delle politiche del “ce lo chiede l’Europa”, ma onestà intellettuale impone che si riconosca che questa sarebbe veramente una svolta capace di ricondurre le assunzioni pubbliche nell’alveo di quanto giustamente prevede la nostra Costituzione: nel posto pubblico si entra per concorso e basta. Sempre che poi i concorsi pubblici ci siano e non siano uno specchietto per le allodole, ma questo è altro discorso. È ovvio che questa ricetta declinata in Sicilia senza giudizio ha soltanto effetti devastanti. Con decine di migliaia di precari che lavorano da decenni (e non da due o tre anni) e al posto (e non a fianco) dei dipendenti pubblici, equivale a mandare un pezzo di Sicilia sana sana nel forno crematorio. Qualcuno forse potrà applaudire, io no. Non mi è mai piaciuta l’idea di fare un forestale ogni tre famiglie nei nostri paesi, ma non dimentichiamo che, come stipendio, ce ne vogliono tre o quattro di questi part-time tutto sommato sventurati, né che questi “sostituiscono” e non “affiancano” il Corpo Forestale Regionale vero e proprio che, come è noto, si è ridotto ai soli ufficiali (per di più mediamente anziani) senza graduati né sottufficiali (o come si dirà più propriamente nei corpi di polizia non militari). Ma non mi piace nemmeno lo spettacolo miserabile di invocare (bestemmiando) l’Autonomia siciliana per difendere decenni di dissennatezza, né quello del Presidente col cappello in mano che va a Roma a implorare “pietà”, “eccezioni”, etc. che fanno di noi i miserabili d’Italia. E soprattutto non mi piace che il costo di questa stabilizzazione venga scaricato tutto su un’altra categoria, ancora più debole: quella dei disoccupati veri e propri, di quelli che hanno perso il lavoro come di quelli che il lavoro non l’hanno mai trovato, magari perché non hanno voluto fare anticamera da un politico, o soltanto perché nati dopo che queste anticamere sono state chiuse per sempre. Scaricare il costo sociale di una fascia debole della popolazione su una ancora più debole (che so? riservando l’80/90 % dei posti ai precari) appare una scelta ancora più scellerata e peraltro distruttiva, anche da un punto di vista demografico. Si condanna all’esodo tutta la fascia più giovane e produttiva dell’Isola; a che Sicilia pensiamo per il nostro futuro quando scegliamo questo? Il vero fatto è che precari e disoccupati, che oggi si odiano e si dividono per un pezzo di pane, sono come i capponi di Renzo, accomunati nella sventura, ma inconsapevoli della comune sorte. La comunanza forzata, di leggi, moneta e politica fiscale, con un’Area Economica non Ottimale (parafrasando ed estendendo il concetto di Area Valutaria Ottimale) non è sostenibile, se non al prezzo di continui trasferimenti dalla parte più produttiva; trasferimenti che certo non possono continuare all’infinito. Questa comunanza, oggi non più solo con l’Italia del Nord, ma con l’Europa, distante in modo siderale dalla nostra “colonia interna”, crea solo polarizzazione dell’economia, cioè disoccupazione strutturale. Non c’è niente da fare. Inutile dare la colpa a questo o quello. Il fallimento è storico e risolvibile solo alla maniera corsa: in Corsica, anch’essa unita in modo innaturale a un Paese alieno, la Francia, ha risolto il problema con un’emigrazione di massa di tutta la popolazione, ridotta a poco più di 200.000 abitanti. È questa la soluzione per un’antica Nazione come la Sicilia, degradata (in tutti i sensi) a regione? No, e comunque non lo è stata in passato. Si è preferito “pagare”, con le elemosine di un posto pubblico, anzi con un ombra di posto pubblico, il “precariato”, i Siciliani per restare dove sono, mentre nessuno metteva in moto la formidabile macchina che Dio aveva dato loro, la Sicilia, e mentre le nostre risorse venivano saccheggiate da qualunque “pirata sbarcato a Palermo”, con il consenso interessato dei mediatori locali. In questo caso la politica siciliana ha barattato le elemosine in cambio dei voti per vivere da califfi, proprio come i Marajah, che vendevano l’India agli Inglesi per continuare a vivere nei loro ozi improduttivi. Scelte sciagurate e scellerate che in Italia hanno complicità pesantissime, ma che hanno in Sicilia i loro principali responsabili. Cosa dovevano fare i disperati? Morire di fame? Accettarono il ricatto. Accettarono il precariato. Vendettero la loro dignità per un pezzo di pane. Vogliamo ucciderli per questo? Non è che tra alcuni disoccupati che oggi vorrebbero inchiodarli alla croce, c’è qualcuno che rimpiange soltanto di non essere, tutto sommato, al loro posto? Ma esiste un’altra soluzione oggi a questo problema, oltre a quella strutturale di porre termine a una unione impossibile e innaturale che crea solo miseria, ma che però richiede tempi e risorse politiche ben più impegnative per diventare realtà? O la Regione ha soltanto il potere di decidere su chi fare macelleria sociale? E qui viene l’idea che potrebbe essere “rivoluzionaria” (ricorda questo termine Presidente? “Rivoluzione”! Quella che nel suo slogan elettorale doveva essere “già cominciata”). Se gli oppressi si coalizzassero invece di farsi la guerra? In fondo, loro, e noi Siciliani tutti, siamo vittime più che responsabili di questo massacro. Lo stesso Governo regionale che va col cappello in mano a cercare un “compromesso” al ribasso con altri siciliani che siedono al Governo statale, potrebbe intanto smettere di farsi derubare di tutte le risorse fiscali che alla Sicilia spettano e che ogni anno sono dirottate allo Stato non si capisce bene a che titolo. A che titolo è stato concesso allo Stato di “accantonare” a suo favore quote dell’IRPEF, IVA e IRES sulle già magri risorse isolane a partire dal 2013, e in dispregio degli stessi accordi del 1965? A che titolo ancora l’Art. 37 non è attuato dopo 67 anni? A che titolo le risorse delle acque territoriali prospicienti la Sicilia sono “italiane” e non “siciliane” come sarebbe naturale? A che titolo lo Stato trattiene le imposte di consumo su gas, elettricità, idrocarburi, che spettano, Statuto alla mano, a Regione ed enti locali? E potremmo continuare. Le ruberie sono tante, infinite, e stanca persino il doverle ricordare sempre. Anche se le responsabilità in Italia sono molte di questa eredità e anche se questa è un’eredità degli ultimi trent’anni di malapolitica siciliana e non certo responsabilità degli ultimi governi della Regione, non possiamo però chiamare nessuno a pagare per questo conto nella Penisola. Il conto dei precari dobbiamo pagarlo Noi, solo noi, ma non possiamo scaricarlo per questo sui disoccupati. Dobbiamo entrare nella logica che i Siciliani siamo come una grande famiglia. Precari e disoccupati sono nostri fratelli e dobbiamo farcene carico. Visto che in Italia nessuno ci considera più fratelli, almeno consideriamoci tali fra di noi, non potremo che guadagnarci, non potremo che scoprire che abbiamo destino e interessi comuni, ciò che poi definisce una Nazione. E pertanto è certo lecito chiedere una piccola forzatura sulle riserve di posti pubblici a loro favore, in un piano pluriennale di rientro (che so? il 60, anziché il 50 %), ma niente di più. La Regione, gli enti pubblici siciliani, i Comuni si devono intanto riappropriare di tutte le risorse che spettano loro, anziché farsi derubare da tutti. Poi dotarsi di piante organiche non pletoriche ma funzionali alle reali esigenze degli stessi enti, e infine bandire i concorsi, quelli ai quali deve essere garantita una possibilità reale ai disoccupati, anzi ai “migliori” tra di loro, di entrare nei ranghi della pubblica amministrazione, assorbendo, nel frattempo, i più preparati e motivati dei precari. Si può fare, si deve fare. La disgrazia di oggi deve diventare il motore del cambiamento. E gli altri precari? Nessuno, se è veramente storico, deve essere lasciato indietro: è un fatto di civiltà ma anche di interesse. Quelli che possono funzionalmente restare in un organico aggiuntivo, devono essere mantenuti, magari sempre da precari, ma mantenuti. Tenteranno al prossimo giro. Nel frattempo devono poter continuare a fare la spesa e ringraziare i loro concittadini per la solidarietà. E quelli in esubero secondo qualsiasi logica, funzionale o economica? Quelli non recuperabili neanche con una logica di mobilità piena e di ruolo unico? Per loro deve essere pensato un paracadute assistenziale, ovviamente non a costo pieno. Un compromesso tra la loro esigenza di non essere abbandonati del tutto, le risorse pubbliche e la giustizia distributiva che impedisce di dare un vero e proprio stipendio, anche sotto forma di sussidio, a chi non fa nulla. Se alla Regione ci sono veri statisti battano un colpo, si può fare. Si deve fare. Certo, per decenni questo rallenterà il miglioramento dei servizi in Sicilia e gli investimenti. Con tutte le risorse che oggi lo Stato rapina alla Sicilia, il prezzo del passato lo dovremo pagare comunque tutti e per qualche decennio. Non se ne esce, almeno se si vuole evitare la macelleria sociale a danno dei più deboli che poi pagheremmo comunque tutti sotto altra forma. La Regione non chieda deroghe, elemosine, che ci attireranno soltanto il disprezzo nazionale. La Regione, il nostro embrione di Stato siciliano, chieda all’Italia solo le proprie risorse e si faccia carico coraggiosamente degli errori del passato. Può farlo, non lasciando indietro nessuno e ridando una speranza a chi oggi ha bisogno disperatamente di lavoro. Ne guadagneremo in dignità e libertà. Ma dobbiamo allearci “tra Siciliani” e non farci la guerra come stupidi. Sapremo farlo? Sapremo organizzarci in tal seno con una piattaforma comune e non corporativa? Anche da questo dipende se la Sicilia come soggetto politico ed economico avrà un futuro oppure no. http://www.siciliainformazioni.com/sicilia-informazioni/53874/la-guerra-siciliana-fra-poveri-tra-precari-e-disoccupati


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