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24/11/2014 - In Sicilia si muore di precariato La gavetta, i sogni e le illusion

Il precariato dei nostri tempi, così diffuso, è assimilabile alla gavetta di cinquanta o settanta anni fa? Partiamo dalle definizioni. Sul vocabolario della lingua italiana Zingarelli si legge: “precariato: stato, condizione di lavoratore precario”. E alla voce “precario” leggiamo: “precario: temporaneo, incerto, provvisorio. Detto di lavoratore specialmente dipendente di amministrazioni pubbliche, assunto con contratto a termine e quindi privo di garanzie per il futuro”. Definizione di gavetta: “venire dalla gavetta: di ufficiali che, iniziata la carriera come soldati semplici, ne hanno percorso tutti i gradi”. Dunque estensivamente “di persona che ha raggiunto il successo partendo da niente”. Le nostre famiglie sono state formate da genitori e nonni che hanno fatto tanta gavetta. Negli anni ’50 e ’60, gli anni della ripresa dopo i disastri della guerra, tu, giovanissimo, da ragazzo, andavi a bottega da un artigiano. Non vedevi una lira per tutto l’anno tranne forse una irrisoria gratifica a Natale. Era così per anni. Poi poco a poco guadagnavi qualcosa, talvolta cambiavi capomastro o bottega per una alternativa che ti pagava di più finché aprivi tu bottega, facevi il pasticciere o il calzolaio o il falegname o il barbiere o l’elettricista o l’autoriparatore. La gavetta e l’apprendistato ti avevano consentito entrate minime ma con gli anni era certo che quella retribuzione sarebbe aumentata. E soprattutto la gavetta ti dava un guadagno fondamentale per la vita: un mestiere. Partendo da allievo diventavi artigiano, imprenditore, a tua volta diventavi tu “mastro” di allievi più giovani. Che restassi solo un artigiano o che mettessi su una impresa dando lavoro a parecchi altri, tu – venuto dalla gavetta – avevi progredito, lavorato e creato lavoro. Perché si progrediva sempre, si cresceva economicamente e socialmente. Campavi la famiglia in un contesto e in un giro di affari in crescita. Lavoravi e guardavi al futuro con ottimismo, con prospettive positive. Negli anni ’60 altrochè se una insegnante faceva gavetta. Anche per più anni in campagna, in una sperduta scuola rurale. Ma era un prezzo da pagare ad una sicura contropartita: era matematico – e tutto sommato ad un’età lavorativa ancora giovane – che sarebbe passata di ruolo in una scuola progressivamente vicino casa. Il precariato dei nostri tempi è fatto – se va bene – di paghe modeste e lavoro a tempo determinato per trentenni (e, al limite, ci può stare ma inibisce l’autonomia economica e la possibilità di farsi una famiglia) e ancora per quarantenni e ancora per cinquantenni. Precari a vita, senza prospettiva di crescita economica. Anzi sempre con lo spettro del licenziamento, della disoccupazione in una società che regredisce economicamente a vista d’occhio. Venerdì della scorsa settimana in una intervista ad una radio privata una signora di Trapani, impiegata amministrativa in una scuola, sessantaduenne, precaria, manifestava tutto il suo rammarico per la convinzione di “morire sicuramente da precaria e non di ruolo dopo una vita da precaria”. Caso limite ma non troppo. Più ricorrente di quanto pensiamo. Gavetta e precariato per quanto all’inizio della vita lavorativa presentino aspetti in comune man mano che passano gli anni accentuano le loro differenze. Nel primo caso per lungo tempo soldi ne vedevi pochi ma poi aumentavano. Nel secondo una base retributiva esiste dall’inizio ma passano i decenni e non si schioda da quegli importi mortificanti specie per chi ha lauree e master o addirittura diminuisce, come nel caso di alcuni call center. La gavetta, caratterizzata dalla progressione, si abbandonava già prima dei trent’anni. Il precariato va avanti vita natural durante. Ma, più di tutte le altre, esiste una sostanziale differenza. La gavetta era una fase della vita che apriva alle prospettive ed alla speranza. Nove volte su dieci riuscivi a imparare un mestiere, lavorare, guadagnare, mettere su e campare una famiglia. La speranza era una componente non aleatoria della gavetta. Il vero dramma del nostro tempo è invece quel mostro segreto che in noi ha cancellato ogni speranza. Oggi nessuno si illude che l’Italia (non parliamo della Sicilia…) avrà un avvenire migliore, una crescita economica fra cinque, dieci o quindici anni. La gavetta viveva sulla speranza. Il precariato sopravvive con i suoi stenti. Nell’unica certezza di non avere speranza di andare avanti economicamente come invece avevano fatto – venendo dalla gavetta – i nostri nonni ed i nostri padri. DI PINO SCORCIAPINO http://www.siciliainformazioni.com/136137/sicilia-si-muore-di-precariato-la-gavetta-sogni-e-le-illusioni


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